1976 - Milano, Gall.
Milano 28 Ottobre (Dibattito tenuto alla galleria Milano il 17 luglio 1976
con V. Alliata, G. Bravi, G. Dorfles, P. Restany, L. Vergine) Gillo Dorfles La serie di immagini che Giannetto Bravi accosta fino a formarne un intero dipinto, la serie di cartoline con le quali viene costruito il quadro da Bravi è un sistema che forse ha già degli antenati. Conosciamo tutti la serie di forografie con le quali (con un’iterazione allucinante) Warhol ha creato molte delle sue serigrafie più interessanti. Però nel caso di Bravi l’uso è basato soprattutto sulla cartolina comperata nel negozio e non sulla fotografia abilmente eseguita dall’operatore o dallo stesso artista, quindi l’opera ha un carattere più popolaresco. Il fatto poi di aggiungere alla serie di cartoline una parvenza di traduzione della realtà attraverso un frammento, un oggetto che esemplifica quello che nella cartolina è contenuto in forma rappresentativa (brandello di scoria vulcanica, cornice di immagine sacra, piccola automabile per bambini nella serie delle cartoline che parlano di un circuito automobilistico), la trasposizione cioè dall’immagine cartolinesca alla realtà tridimensionale possiamo dire, offre un altro spunto che ci riporta a delle operazioni analoghe, tanto per citarne una quella di Tobas. Anche quest’artista francese si è servito spesso nelle sue composizioni di tipo concettuale dell’inclusione di elementi presi dalla realtà, frammenti di oggetti, semi, polveri, pezzi di funi di una funivia che veniva illustrata nel resto del dipinto; e quindi, anche nelle opere di Bravi possiamo trovare questo tipo di assimilazione. Quello che per prima cosa vorrei dire è che queste opere si distinguono per alcune caratteristiche tutte loro che si possono riassumere in una certa napoletanità. Bravi è stato influenzato, è stato colpito evidentemente già dalla sua infanzia dalla spettacolo fastoso e, nello stesso tempo, cruento e minaccioso del Vesuvio. Tra le più belle sue composizioni ci sono proprio quelle in cui la riproduzione dell’iterazione costante del cratere del vulcano acquista una perentorietà e una coercitività estremamente suggestiva. Un’altro punto della napoletanità, diciamo così, di Bravi è quello di servirsi di alcune immagini vagamente folcloristiche, che possiamo trovare in altri pittori napoletani del nostro periodo, dal primo Persico al Bugli, dallo stesso Del Pezzo con i suoi primi medaglioni pseudo-sacri, a molti altri. Questo elemento di sacralità popolaresca che a Napoli è così vivo perché ha, allo stesso tempo, la radice supertiziosa e la radice cupa del malocchio, dell’esorcismo, è quindi filtrata anche in queste immagini di Bravi, che potrebbero sembrare molto più ilari ma che, in realtà, conservano la cupezza tipica di molta arte napoletana. Pierre Restany Ho conosciuto Giannetto Bravi nel 1971 quando gli scrissi la presentazione in catalogo per la mostra al Centro Apollinaire, l’ho rivisto nel 1972 e lo rincontro adesso nel 1976, dopo quattro anni che hanno evidentemente lasciato in Bravi una traccia che non mi aspettavo. Ho rivisto, dunque, Giannetto Bravi l’ultima volta nel 1972, in occasione dell’operazione Vesuvio quando avevo in mente di trasformare la cime del Vesuvio (che era di nessuno o di tutti) in un parco culturale internazionale aperto all’intervento sulla nutura di ogni artista del mondo. Avevamo deciso di delimitare una zona in cima al Vesuvio come territorio per l’intervento degli artisti. Mi sono reso conto, facendo questa operazione che tre anni prima, credo nel 1969, un gruppo di artisti napoletani con Gianni Pisani e anche con Bravi avevano già tentato una specie di spedizione sul Vesuvio per occupare, se posso dire, lo spazio del cratere. C’è dunque alla base del lavoro attuale di Bravi una molla che è scattata, e credo che sia veramente legata, come ha detto prima di me Dorfles, a questo feticismo del Vesuvio e, diciamo di più, a quel fatto geografico assolutamente eccezionale. Credo che, alla fine, quando si tratta di napoletanità, di civiltà napoletana, si tratti di un connubio abbastanza raro: Napoli è stata capitale, Napoli ha avuto tutta una storia molto travagliata ma, nello stesso tempo, questa città che fu capitale e che ha sviluppato a modo suo un tessuto umano tutto particolare è anche una città ove la geografia è eccezionale. Il connubio dà certamente a Napoli una dimensione unica; non credo che esista al mondo un connubio di questo tipo. Esistono altri vulcani, ma non hanno quella vicinanza, non hanno la presenza di una geografia eccezionale e di una storia personale ed è abbastanza naturale, dunque, che il Vesuvio sia, per Bravi, una specie di riferimento fondamentale. D’altronde “l’operazione Vesuvio” che avevo ideata è rimasta proprio allo stadio concettuale ante litteram, dato che non siamo andati al di là delle diverse mostre di progetti internazionali che avevo organizzato. L’unico che ha voluto andare oltre nell’intervento sul Vesuvio è stato proprio Bravi. Ho ricevuto durante la prima metà del 1973, e cioè durante sei mesi dopo l’inizio dell’operazione, una serie di cartoline postali del Vesuvio come testimonianza dell’azione prolungata di Bravi su questa natura stessa. Questo tipo di operazione si può paragonare a quella del giapponese On Kawara che manda, durante un mese, ad un certo numero di corrispondenti la cartolina del posto dove si trova con l’ora della sua sveglia e l’ora in cui si è addormentato. Però, nello stesso tempo, credo che il feticismo di Bravi acquistasse pian pianino, se posso dire, un’altra dimensione, una dimensione di oggettivazione: la cartolina postale diventava una specie di promemoria, cioè il feticismo della memoria diventava la memoria del feticismo, e forse la sua opera attuale si può capire proprio attraverso questa cerniera; nel momento in cui la cartolina postale non è stata più uno strumento di intervento sulla natura del Vesuvio, inserito diciamo in un progetto concettuale collettivo, ma ha acquistato la sua autonomia oggettiva, da questo momento in poi Bravi ha potuto adoperare la cartolina come un elemento quasi modulare, come un mattone. In questo senso forse il paragonare Bravi a Warhol, come ha fatto Gillo, è un po’ azzardato perché credo che non si tratti di una struttura ripetitiva, ma di una struttura aggiuntiva. Insomma, i quadri di Bravi, che sono delle cartoline postali incollate su tele, sono più vicini diciamo all’architettura dell’immagine e non alla sua analisi ripetitiva. Questo mi pare una cosa molto importante, perché è evidente che la cartolina postale soprattutto attraverso la diversa proposta concettuale di oggi è diventata un elemento a doppio taglio, cioè uno se ne serve, ma anche, alla fine, rimane vittima della cartolina postale e, molto spesso, nell’uso di oggetti simili ho avuto l’impressione che l’artista perdesse il controllo dell’assemblage. Invece in Bravi c’è una coscienza molto precisa del rapporto dell’immagine strutturale con l’immagine di base e questo rapporto viene evidenziato nei suoi collages, come per esempio nella serie delle cartoline di automobili dove c’è il riferimento al modellino di base. Questo tipo di coscienza oggettivata di un elemento modulare come la cartolina postale, mi pare che non è più feticismo della memoria, ma, come ho già detto, la memoria del feticismo cioè il ricordo del feticismo, usato in modo molto oggettivo, come un elemento di base per creare una nuova architettura dell’immagine e, se posso concludere per il momento, direi che Bravi, utilizzando le cartoline postali come mattoni, crea una nuova proposta di architettura del feticismo, che bisogna considerare le sue immagini come si vede un muro insomma. Questo trasformare il modulo ripetitivo in una struttura architettonica dell’immagine mi sembra essere la cosa più positiva nella ricerca attuale di Bravi. Lea Vergine Gillo ha parlato degli elementi della napolitanità che certamente sono presenti nelle opere di Bravi ... Dicevo prima a Pierre che queste opere mi sembrano tutt’altro che giulive, tutt’altro che allegre come potrebbe risultare all’apparenza; mi sembra che si tratti, più che altro, della documentazione di un sogno collettivo di impotenza, come dire, la testimonianza di un gran deficit affettivo... P.R. Posso capire la tua chiave di interpretazione diciamo psicanalitica, ma il mio punto di vista è molto diverso. Vedo in Bravi un grande distacco verso l’immagine a livello, diciamo semantico. Vedo molto di più una volontà di strutturare l’immagine a livello architettonico. Non vedo tanto questa nostalgia, vedo molto di più un distacco verso l’immagine ... l’immagine come mattone insomma. L.V. Ho capito perfettamente: quello che dici è abbastanza giusto ... L’immagine come mattone, il muro di cui parlavi prima, il muro e non lo schermo... P.R. Perché, alla fine, la ripetizione di ogni immagine, per esempio nel cratere del Vesuvio o nelle automobili, non è che aggiunga qualcosa come nel caso di Warhol. Ne vedi una, le vedi tutte. Il muro è la stessa cosa ... La forza d’urto e di impatto dell’immagine non viene moltiplicata dal fatto ripetitivo. G.D. No, non siamo d’accordo. L.V. Aspetta che dopo ti ripasso la parola. Voglio continuare un attimo, altrimenti perdo le tracce di quello che volevo dire ... Un’osservazione era quella del deficit affettivo. Il lavoro che vedo fare a Bravi è proprio quello di colui che preserva le tracce; da anni colleziona questi oggetti. In queste opere a me sembra di vedere, prima ancora che figure, segni resi astratti in base al procedimento di accumulo, in base al procedimento di allineazione, in base all’inventario che ne fa; li vedo prima ancora del quadro. Il divenire ossessivo del suo cerimoniale che, come tutti i cerimoniali, nasce da un’esigenza di difesa, da un’esigenza di preservazione, di rassicurazione, da misure precauzionali, mi fa pensare al processo di museificazione. In altre parole, cosa fa Bravi? Costruisce delle custodie, secondo me dei reliquiari, fa un censimento, propone un museo di cose, di oggetti: il vulcano, la rosa, gli uccelli in gabbia, gli animali, esseri che scompariranno, i resti di una natura che si prevede non debba durare tanto a lungo. Cioè una delle componenti del suo lavoro, mi pare la maniacalità del collezionista. A questo punto vorrei che a proposito dell’argomento collezionismo, parlasse Vichy Alliata che sta lavorando intorno a questo problema per un suo libro. Vicky Alliata Si, proprio nel tuo libro sulla Body Art, Lea, trovo una citazio-ne che mi sembra molto interessante, all’inizio, là dove dici: “In tutte queste operazioni presentate c’è la necessità inappagata di un amore che si estende illimitatamente nel tempo, il bisogno di essere amato comunque per quello che si è e quello che si vorrebbe essere con diritti illimitati, ...” (L.V. Devo dire che mi vai a colpire nell’autobiografico ...) V.A. “...Di qui la delusione il fallimento inevitabile”. Il che coincide con la mia analisi sul collezionista ... Difatti io intendo il collezionismo non come accumulo di ricchezze, ma come soluzione alla sconfitta e da parte dell’adulto a possedere il mondo, o a possedere appunto questo amore totale, e da parte di una classe che si sente sfuggire il potere o sente che il potere non lo potrà mai avere. A questo proposito ritorno a Warhol, di cui parlava Dorfles: il rapporto con Warhol, il quale però non colleziona nel senso maniacale di cui parlavi tu poco fa, non crea un museo di se stesso, ma una raccolta in process, funzionando da cartina acchiappamosche. Man mano che Warhol colleziona la realtà, ossia man mano che si costruisce una personalità in base alla dittatura dell’oggetto, Warhol assume una identità che cresce di valore intanto che la collezione aumenta. Secondo me, Bravi si pone a metà strada tra Warhol e D’Annunzio è il prototipo del collezionista piccolo borghese, il collezionista di una classe paraegemone dove il senso della sconfitta inevitabile si accompagna, però, alla consapevolezza di far parte comunque del potere, ossia di essere qualcosa che, bene o male, rientra nell’ambito della borghesia. D’Annunzio colleziona maniacalmente se stesso non solo in tutto il corso della sua vita (il suo atteggiamento verso la realtà, le donne, le case, le suppellettili), ma sappiamo che all’interno del suo lavoro di scrittore il collage, il recupero degli altri, il plagio, ecc. sono stati strumenti da lui brillantemente adoperati. Ecco, in questo senso D’Annunzio fu veramente il primo comportamentista, senza averne la consapevolezza. Ora, perché dico che Bravi si situa a metà strada fra questi due personaggi, D’Annunzio e Warhol? Perché il suo fare di collezionista ripropone il modo di collezionare dell’oggi, della piccola borghesia. Essa colleziona in due modi: o cartoline, francobolli, ecc. in chiave specializzata, quindi esplicitando al massimo la propria sconfitta, oppure in maniera estremamente diluita tanto che la collezione si identifica con l’esistenza stessa. La collezione piccolo borghese di oggi è un sarcofago di vita, è un ersats, è un surrogato, dove tutto, dalla moglie alla televisione, alla macchina, al salotto (vediamo, appunto, che ci sono alcune opere di Bravi, come Le couloir de M.lle Anna, che ripropongono degli squarci di case e di abitazioni piccolo borghesi), tutto diventa collezione. L.V. Pierre, tu prima precisavi la differenza dei nostri due punti di vista, quello psicanalitico e quello della ricerca del linguaggio architetturale. Ora, riflettevo sul Vesuvio, questa forma che ritorna sempre, ed anche sull’uccello in gabbia e sulle altre cose che sono riportate sul quadro e sono il cavallo, la rosa, l’automobilina, ma anche, contemporaneamente, qualcosa d’altro, cioè su questa sinsemanticità. P.R. Vedi, io ti posso rispondere questo ... So che Gillo non è d’accordo con me (dopo ti passo il microfono Gillo). Credo che il punto di partenza avrà la sorgente freudiana di cui parli tu. L’atteggiamento attuale di Bravi, secondo me, è la grande rivincita sul feticismo del vulcano, sul feticismo del cratere. Quando ti ho detto che è passato dal feticismo della memoria alla memoria del feticismo è questo che volevo dire, cioè che, tutto sommato, se lui fa il collezionista lo fa in modo talmente obiettivo e talmente distaccato che sta piuttosto cercando di conservare la memoria di una semantica che se ne va, di una simbologia che sarà veramente la più minacciata dal tempo perché è lì il vero problema. Dunque, se Bravi conserva qualcosa lo fa in modo quasi chirurgicale, se posso dire, molto freddo; ciò perché quando si ha questo di-stacco verso l’immagine si sa anche che il significato stesso dell’immagine sta per perdere il suo senso, sta per diventare una cosa morta. E’ proprio questa lotta contro la perdita di sostanza semantica dell’immagine che lui sta facendo perché adopera la cartolina postale stessa in modo strutturale, concettuale. Non mi aspettavo, devo dire, dato che non ho visto le opere di Bravi da quattro anni in qua, questo strano distacco verso l’immagine, ma ritengo che sia una cosa molto positiva e, se posso avere una convergenza di idee con voi, esso è a livello del recupero di una simbologia che sta per morire. G.D. Su tutte queste cose siamo d’accordo tutti, credo. Ero meno d’accordo con quello che dicevi prima, ma ormai ho già dimenticato quello che avevi detto e quindi non posso ribattere. Tuttavia penso che qualche obiezione si può fare. Io non vedo ne il feticismo ne il collezionismo, devo dire. Non lo vedo come qualcosa di esplicitamente importante ... No, no, io trovo che il risultato di quest’operazione è il quadro come lo vediamo. Il fatto che ci sia un accumulo di immagini identiche e analoghe come quelle degli uccellini, come quelle delle rose o come quelle dei vulcani, non significa che ci sia una volontà collezionistica ... L.V. ... che ci sia per esempio questo desiderio di memorie non lo vedi, il fatto che Bravi si trova a disporre di conoscenze del nostro passato e, contemporaneamente, di conoscenze del nostro presente di cui sa che presto diventerà passato? G.D. Non credo che ci sia tutto questo, no, veramente. Credo che ci sia soprattutto il recupero dell’immagine triviale, dato dalla cartolina che viene assunta e sussunta ad immagine prototipo, archetipo, diciamo. Questa mi pare la cosa più interessante, proprio nella nostra epoca la cartolina illustrata che è ancora abbastanza vitale, ci dà della realtà un’immagine emblematica, antipaticissima parola, ma che in questo caso veramente corrisponde a quello che è il significato di emblema, cioè un simbolo ormai cristallizzato che è molto più forte di quello che non può essere la fotografia, perché è un’immagine fissa, un’immagine immutabile, e proprio a livello di psicologia delle masse. Questo mi pare il fatto importante. Ora vedremo se lo stesso autore è d’accordo con quello che diciamo ... Il fatto di servirsi di cartoline e non di una fotografia molto più abile, molto più sofisticata, molto più raffinata, quale potrebbe essere l’immagine fotografata dallo stesso autore, o da un buon fotografo, è proprio una prova della volontà di Bravi di servirsi dell’immagine popolarmente accettata, cioè diventata emblema. Allora, in questo senso, il quadro che totalizza queste varie immagini acquista una forza maggiore di quella che potrebbe essere se fosse una serigrafia come quella di Warhol, fatta con immagini ad hoc e non con immagini prese da una realtà popolaresca come quella di una cartolina. Ma dovevamo chiedere la risposta di Bravi alla mia domanda. Giannetto Bravi In effetti, se ricorro ad immagini già date è perché c’è, alla base, da parte mia un voler recuperare un mondo altrui, un mondo già cristallizzato in un’immagine ben precisa e ricostruirlo. In questo Pierre mi si è molto avvicinato parlando di costruzione architettonica perché io recupero questo materiale proprio come tanti mattoni che poi metto insieme su delle superfici. Scegliendo in un mondo che non è il mio, esso può, in un secondo tempo, eventualmente diventarlo. Però, nel momento in cui è stato rielaborato, ricostruito in un’immagine ben precisa, io lo rimando agli altri come vissuto da me, ma recuperato già dal mondo di altre persone; di qui anche la necessità di riferimenti al di fuori della cartolina, attraverso altri elementi come gli oggetti. G.D. Quindi non c’è il collezionismo ... G.B. Il collezionismo forse è più evidente in quegli elementi cui si riferiva Vicky: particolari di interni, gli abat-jours, i pulsanti elettrici in porcellana, oppure collezionismo può essere inteso come diceva Lea Vergine in funzione di un mondo che probabilmente è destinato a scomparire (o almeno c’è questa sensazione, esagero forse dicendo angoscia). Cose che non si saranno più, ecco perché forse il museo è vero, è un museo costruito anche se diventa artificioso alla fine, è un museo che vorrebbe essere un punto di riferimento per altri che un domani non avranno più la possibilità di vedere queste cose dal vero, perché la realtà non sarà più così, sarà cambiata. P.R. Non ti sembra un’illusione questa, perché tu stai lavorando con un materiale che sta per morire a livello semantico? G.B. Per quanto riguarda l’illusione, non è soltanto in quello che faccio come lavoro in se stesso, l’illusione è purtroppo nel constatare che non vedo nessuna speranza, al limite non solo per le mie cose, ma per qualsiasi altra cosa che possa resistere al tempo. E’ questo senso di impotenza proprio verso qualcosa che senz’altro ha le sue scadenze precise, dove non sarà possibile recuperare più nulla, dove la memoria avrà perso la memoria. G.D. Futilità dell’immagine insomma ... P.R. Arriverai alla pietra pura ... G.B. Futilità non solo dell’immagine, futilità proprio dell’esistenza. Mi scuso ... forse questo è esagerato. P.R. Arriverai alla pietra pura, vulcanica magari ... V.A. Vorrei spiegare che forse c’è un’incomprensione, ossia Restany e Dorfles parlano di mattoni, a me pare che i mattoni fanno un muro e a me quello che interessa di più è il muro e non i singoli mattoni. Insomma, mi interessa l’iter complessivo del lavoro di Bravi e non il fatto che lui, come dice Dorfles, accumuli immagini analoghe. Non mi interessa che lui ripeta nello stesso quadro la stessa cartolina, questo non lo chiamo collezionare; quello che mi interessa è l’operazione globale che, citando Balzac, è una mania, ossia un piacere passato allo stato di idea. E mi pare proprio che l’uso che fa Bravi di elementi completamente diversi, non solo della cartolina, ma dei reperti del vulcano, delle suppellettili dei salotti, il materiale da vetrinista, come le stelle del quadro Starts of Nobody, tutti elementi che giornali di arredamento piccolo-borghese ci danno come dei must, come delle necessità, per arredare la nostra vita quotidiana. E’ questo secondo me il collezionismo diluito della piccola borghesia: la vita intesa come surrogato e tutto il lavoro di Bravi consiste nell’esplicitare proprio questo. Così si situa tra D’Annunzio e Warhol (in questo senso il di-stacco di cui parla Restany). P.R. Dato che Vicky ha citato Balzac, mi è venuto in mente Flaubert quando diceva: “Odio la memoria quando diventa museo ...”. G.D. Mi pare che sia stato detto tutto, ma tanto per contraddire ancora, ri-badirò che questa assimilazione Warhol-D’Annunzio con Giannetto Bravi mi sembra impropria per due ragioni, perché D’Annunzio è certamente il vate kitsch più tipico. V.A. No, non sono d’accordo. Io trovo che D’Annunzio non è affatto il vate kitsch ... G.D. Se non siamo d’accordo sul vate kitsch, allora cade tutto ... V.A. Io ho detto che D’Annunzio era il prototipo del collezionista piccolo borghese. G.D. Ma sai, il collezionismo piccolo borghese equivale al kitsch quasi sempre, direi che quasi tutto il collezionismo equivale a kitsch perché usa le cose in maniera di surrogato. Invece, nel caso di Bravi noi abbiamo un collezionismo cosciente della qualità piccolo borghese, se vuoi, dei reperti; quindi è una cosa completamente diversa da quella fatta da D’Annunzio. D’Annunzio sceglieva i suoi soggetti di pessimo gusto senza sapere che fossero di pessimo gusto, Bravi sceglie cartoline, uccelli od altre cose, di gusto popolaresco, sapendo quello che sceglie. V.A. Infatti, per questo si situa a metà strada tra D’Annunzio e Warhol ... G.D. No, appunto non ha niente a che fare con D’Annunzio e non ha niente a che fare neanche con Warhol, perché Warhol fa un’operazione di tipo élitario, volutamente élitario ... P.R. E legata anche ad un certo mezzo. G.D. E legata anche al particolare medium di cui si serve: serigrafie sulla fotografia. V.A. Ma Warhol colleziona tutto quello che gli viene detto, registra tutte le telefonate che riceve, fotografa ogni persona che incontra, anche lungo la strada. Io, di nuovo, parlo di Warhol non come un pittore, ma parlo di Warhol nella sua esistenza complessiva. G.D. Ma noi stiamo parlando di quella parte di Warhol che assomiglia all’opera di Bravi, non faccio mica il confronto tra il Warhol del cinematografo e Bravi. Che cosa c’entrerebbe, non avrebbe nessuno scopo, faccio il confronto fra il collezionismo vittoriano di D’Annunzio e l’ipotetico collezionismo di Bravi che io non considero collezionismo e quindi vedo che non c’è nessuna possibile assimilazione ne con il collezionismo dannunziano ne con l’iterazione warholiana. Quindi i due paragoni crollano ... V.A. Non ti resterà che leggere il mio libro ... |