Messaggero Veneto – Martedì 14 Febbraio 1984 di U.P.

L’opera di Giannetto Bravi, che espone a La Roggia, si colloca in quella che fu una moda artistica detta dell’oggettualità che fonda la narrazione nella ripetitività di un modulo, scelto non certamente a caso, ma come controbilancio di una segreta angoscia che obbedisce a una operazione molteplice. Il recupero di un’immagine è soggetto alla ripetitività (un collage dell’unidimensionale) che acquista nella sua giustapposizione valori diversi, quali la sensazione dell’informale (dominio del colore, se l’assieme è visto da lontano), il ritorno del particolare restituito nei minimi particolari (visualizzabili solo in carrellata), il gioco di luce e di architettura piana o mobile (quest’ultima si fonda sulla ricerca della percezione visiva dell’occhio umano e crea spazi di diversa profondità, utilizzando ad arte le tinte fondamentali dell’oggetto, che si ripetono nell’interstizio della cornice che rattiene la sequenza dello “stranissimo” film).
La ripetitività dell’oggetto (sia esso il cono del Vesuvio, le icone di maestri del passato, le icone vestibolari parietali della Pompei sepolta, il presepe di Cucciniello, animali in estinzione o vecchie strade della Napoli antica) risponde a un desiderio, che è poi un’intima esigenza, di salvare l’immagine del passato, di calare l’opera in contorni di “rivisibilità”: un museo di vissuti, che vanno impressi nella memoria contro l’usura del tempo.
L’opera di per sé non appartiene all’artista; essa è oggettivata dalla fotografia delle cose esistenti o già esistite; all’artista appartengono la scelta, che è ecologica e culturale, di un brandello del presente o del passato, visti come un bene che si ha intrinsecamente a perdere, e l’ambientazione (interazione di una particolare immagine), che diviene di per sé fenomeno concettuale da trasmettere con precise finalità.