1984 - Pordenone, Gall. La Roggia 11-24 Febbraio (Presentazione di Enzo Di Grazia)

Il rapporto che, quasi di necessità, si stabilisce tra l’attività di un artista e il mondo primigenio da cui deriva (quell’insieme di storia, cultura, riti, credenze, costumi, abitudini che gli si è impresso quasi per cromosomica trasmissione) non è mai lineare o uniforme; anzi, la norma più diffusa è quella di un amore-odio che genera molti e contrastanti atteggiamenti, dal rifiuto più totale alla memoria sacra, con intervalli imprevedibili di tentativi di esorcismo o di sensuale rivisitazione.
Anzi, è proprio da questi contrasti, accavallamenti, confusioni, incertezze che, molto spesso, emerge il meglio della creatività di un artista.
Nel corso dell’ultimo ventennio, il problema della cultura “bassa” e del suo rapporto con l’Artisticità ha assunto termini e posizioni legati strettamente a quelle condizioni di incertezza e di alternanza continua, per di più, all’interno di una diversa logica che presiedeva, di volta in volta, al modo di intendere l’arte.
C’è da dire però che, accettata o respinta, vissuta a livello di esperienza massificata o fatta affiorare implicitamente (talvolta anche involontariamente) attraverso l’individuale espressione dell’ineffabile, la cultura popolare ha avuto una funzione ed un’importanza non indifferenti in quasi tutti gli operatori, specialmente quelli di matrice “napoletana”, nei quali - per struttura culturale e mentale - certi legami alle radici sono più stretti e profondi.
L’esigenza, oggi, di riaffermare un rapporto estrinseco ed esplicito dell’attività artistica con la cultura originaria del singolo operatore propone altri termini per questo rapporto, in un primo tempo vissuto come dato politico, piuttosto che estetico, e in un secondo tempo affiorante continuamente in un’estetica esasperatamente individualistica.
Affermare, esprimere ed anzi esaltare il feeling tra la cultura originaria e l’espressione lirica individuale è una linea sulla quale ci si sta muovendo con decisione e chiarezza.
In questa logica, Giannetto Bravi appare un testimone di grande rilevanza; e la sua produzione, continuamente in bilico tra il poetico ed il politico, risulta da un decennio ormai avviata a questo tipo di equilibrio in cui l’estro individuale delle soluzioni e la tensione politica delle proposte si trovano armonizzanti.
L’uso continuo (e quasi ossessivo) della simbologia propria di una realtà geografica, sociale e culturale trova una facile collocazione in questo discorso, se si osserva che le cartoline usate prevalentemente sono quelle della stereotipia della napoletanità (o della napoletanitudine, in qualche caso): dal Vesuvio - immagine universale - al presepe di Cuciniello - un elemento paradigmatico di una tradizione popolare - agli affreschi di Pompei - testimonianza di una cultura specifica - sul suo cammino nella ricerca di “paesaggi costruiti” con la creazione - attraverso materiali di consumo - di architetture mentali, incontra sempre (e volentieri) i “maghi, streghe e c.” della sua civiltà di origine; la sua tensione ad una “sensualità dannunziana” della memoria si sviluppa all’interno di ambienti borghesi impregnati di meridionalità e di napoletanità: la sua vena di poeta, cioè, con tutta la carica di individualità che assume, si incontra continuamente con la carica di “politicità” che le scelte posseggono, per il legame continuo con le radici.
Che è una sua condizione; ma che (scambiando facilmente il D’Annunzio salottiero de “Il Mattino” con il meno meridionale Gozzano) è una condizione più vasta, più storica, più universale.