1991 - Legnano,
Associazione Artistica Legnanese 18 Ottobre - Antologica 1967-1991
(Presentazione di Angela Vettese) Nei curricula di Giannetto Bravi si legge spesso che, in fatto di arte, è autodidatta. Ma ha ancora senso usare questo termine, dopo un secolo di testardo distacco dell’arte dall’accademia e di incursioni in tutti i campi del sapere da parte degli operatori visivi? Diciamo allora come stanno le cose: all’inizio del lavoro di Bravi ci sono i molti anni di vita napoletana (1940-1974) e gli studi di Geologia. Tutta la sua carriera d’artista è stata condizionata da questo doppio binario, da un lato la conoscenza profonda di una cultura locale che, per la sua tipi-cità, si è posta nel mondo come un simbolo universale del folklore; dall’altro un’attitudine scientifica al rilevamento, alla verifica, al reperto. Insieme, questi due aspetti hanno dato luogo a un’indagine sul territorio sia dell’arte che della vita svolta su un doppio binario, quello caldo della semantica sociale e quello, freddo, dell’indagine sul linguaggio dell’arte. Due filoni strettamente intrecciati, anche se sempre disposti a ripresentarsi anche scissi, che se si è in vena di categorizzare possono far pensare a una crasi di reminiscenze pop e concettuali. Al suo esordio, nella prima personale alla Galleria Fiamma Vigo di Roma (1967), Bravi espose delle cosiddette Verifiche, quadri geometrici dipinti con colori industriali il cui scopo era mettere in evidenza le relazioni tra spazio e colore: l’ascendenza era forse costruttivista, ma l’attenzione maggiore era rivolta alla reazione emotiva, oltre che retinale, del riguardante. Queste premesse diventano esplicite subito dopo, nel corso dell’Operazione Vesuvio, volta a indagare ed eventualmente modificare il vulcano; da allora, la montagna fumante sarà al centro di molti altri suoi lavori. Ma perché proprio il Vesuvio? Perché è il simbolo della napoletaneità e, più in generale, di una cultura popolare che il turismo ha minacciato, sconvolto, trasformato in merce di gusto kitsch. Ma anche perché è un grande oggetto geologico, un reperto per eccellenza, un gigante rimasto vivo e attivo da epoche lontanissime; un elefante di lava che da millenni resta quello che è, un monte ma anche una minaccia che nessuna riproduzione oleografica sa esorcizzare del tutto. Con l’amico Gianni Pisani ed altri artisti napoletani, dopo aver fondato a Napoli la Galleria Inesistente, in un afflato di utopia concettuale progettano di occupare il cratere e di appiccarvi fuoco; nel 1972 è accanto al critico Pierre Restany, che ipotizza di trasformare i bordi del cratere in uno spazio dedicato alle manifestazioni artistiche: erano gli anni della body art, della performance, dell’happening, e nessun luogo come le falde del vulcano emanava in Italia un fascino tanto forte; del progetto non si sarebbe fatto nulla, ma l’”operazione Vesuvio” procedette ugualmente sotto forma di mostre collettive alla galleria napoletana Il Centro (1972). Individualmente, Bravi iniziò in quell’anno a inviare cartoline del vulcano a critici e amici, con l’esatta indicazione di un luogo, a prelevare un “pezzo di Vesuvio”, e a riportarvelo poi, ricostruendo l’integrità del monte, “in tempi migliori”: verde ed ecologista ante litteram, l’artista ancora una volta deforma e piega la precisione scientifica ai fini dell’impossibile artistico e della coscienza sociale. L’arte di Bravi diventa per un attimo arte di comportamento, in cui l’oggetto-cartolina non è che il segno di una più vasta azione; già le Valigie con catene del 1971, del resto, si erano mosse in questa direzione: valigette di ferro recanti una lunga catena avvolta, il cui uso strettamente personale, suggerito da una serie di foto che riproducono una performance, consiste nell’avvinghiare durevolmente a se la persona amata. Quegli oggetti, le pesanti valigie come le cartoline, non hanno senso di per sé se non collegati alla storia che stanno a simboleggiare. Subito dopo, già dal 1973, Bravi però torna a considerare l’oggetto in quanto tale. Inizia la serie fertile degli assemblages di cartoline, inizialmente sempre del Vesuvio, poi anche di altre vedute comuni e, negli anni, trasformatesi in ritratti fotografici. Il procedimento prevede l’assemblage di numerose cartoline di identico soggetto su una tavola più o meno grande; l’effetto è quello della trasformazione di un pattern figurativo in uno astratto, come recentemente è accaduto nei finti quadri realisti di artisti russi come Kabakov e Bulatov; il meccanismo di illusione prospettica insito nella fotografia si perde, l’opera si appiattisce, diventa simile ai muri sui quali si affollano poster ripetitivi e ossessivi; riemergono, dunque, sia quei valori geometrici che avevano caratterizzato la prima fase del lavoro, quasi le cartoline fossero vetrini di laboratorio in attesa di analisi, sia l’aspetto del rilievo sociologico, che tende sempre più insistentemente a piegare verso la psicologia. Attraverso quelle opere, infatti, mano a mano si rivela soprattutto la mentalità del piccolo collezionista, la personalità di chi raccoglie quei souvenir come feticci. Per rendere ancora più chiaro questo riferimento all’oggetto di un attaccamento morboso, i “quadri” vengono spesso accompagnati da un frammento o memento della realtà riprodotta, sia un sassolino di lava, sia un modellino di macchina. Ecco allora che nascono, coerentemente a partire da queste opere, due direttrici diverse di lavori. La prima è quella delle gabbie, piccole celle di vaga memoria surrealista in cui vengono chiusi piccoli oggetti, fotografie, relitti simbolici della vita interiore di un personaggio; la seconda è invece quella dei veri e propri ritratti, assemblages per lo più ritmici e geometrici di primi piani fotografici identici, montati su supporti tridimensionali dipinti con un colore dominante: appartengono a quest’ultima serie il Ritratto autoritratto dell’artista medesimo, raffigurato in una foto da ragazzo, e i ritratti dei critici Ballo, Bonito Oliva, Dorfles, Del Guercio, Menna, Restany, Vergine, esposti in una mostra del 1980 presso lo Studio Marconi di Milano. Sono i binari sui quali ancora oggi si snoda gran parte del lavoro d Bravi, nonostante alcune escursioni più decise nel campo della tridimensionalità, con sculture di ferro e di legno, e della pittura geometrica. Ancora adesso, al polo freddo dell’indagine, le cartoline si stagliano come icone sacrali su alte aste, ironici monumenti al segno massificato e alla natura divenuta, con Baudrillard, merce di scambio simbolico, mentre nel suo versante caldo (e sempre più intimo) i visi delle persone care sono chiusi in impenetrabili grate. |