2000 – Milano, Gall. DIECI.DUE! – La Mia Cina è Buona da Mangiare (Presentazione di Lorella Giudici “Jasmine Tea – Te’ al Gelsomino”)

In oriente il tè è, da sempre, simbolo di civiltà e meditazione; tanto che il Sado, la via del tè, è prevista e quotidianamente praticata nei rituali Zen. Il preparare, l’offrire e il sorseggiare questa particolare bevanda non è la conseguenza di semplici e scontati gesti, ma una tradizione millenaria (fatta di regole ferree e meticolose), connaturata alla filosofia di questi popoli.
La tradizione buddista vuole che le prime foglie di tè siano “nate” quando il discepolo Bodhidharma si recise le palpebre per non rischiare di addormentarsi durante le lunghe ore di meditazione. Per i cinesi, invece, la comparsa del tè, cronologicamente antecedente a quella nipponica, è da attribuire a Lu-Yu, l’essere primigenio nato da un uovo. Un tempo, la calda bevanda ambrata si prendeva nel giardino della casa del tè, una specie di santuario apposito in cui ritrovarsi per sublimare quest’importante cerimonia giornaliera. Il rituale comportava gesti lenti, precisi, e, cosa ancora più importante, lo spirito esigeva un raccoglimento particolare, tutto teso alla ricerca dell’armonia originaria tra esterno ed interno. Serenità e perfezione dovevano pervadere i partecipanti con la stessa intensità e dolcezza con cui l’aroma del caldo infuso si diffondeva nell’aria.
Oggi, purtroppo, molta di questa cultura si è persa, si è mescolata con le fre-nesie occidentali, con lo spirito commerciale e imprenditoriale del Nuovo Est. La Cina è probabilmente, l’unico Paese al mondo che è stato capace di fare delle proprie tradizioni un business: ristoranti, negozi, mercatini … in ogni angolo del mondo spunta un cinese che ti vuole vendere un foulard, un portafortuna, una ceramica, un ventaglio, un prodotto della sua terra o una scatola di raso rosso ricolma di profumatissimo tè al gelsomino.
Non esiste, forse, città del mondo che non abbia almeno un ristorante o un negozio “made in China”. Da New York a Sidney, da Londra a Johannesburg, la cucina cinese ha esportato i suoi gusti aspro-dolci, combattendo, a modo suo, la battaglia della globalizzazione. I Ravioli al vapore, le Cappelle di funghi con verdura saltata, lo Stufato d’anatra saltato con alghe, il Pollo fritto al limone, i Legumi saltati al naturale sono alcuni dei piatti che compaiono in tutti i loro menu. Giannetto Bravi ha rubato dalla lista queste immagini, si è appropriato della loro estetica (un miscuglio di ricercatezza cromatica e sapienza formale) e le ha appese alle pareti. L’effetto è alquanto curioso. Su uno sfondo, non a caso, rosso lacca si stagliano girandole di stuzzicanti ghiottonerie, la cui ori-gine orientale è dichiarata in ogni più piccolo dettaglio e i cui intensi profumi s’indovinano senza fatica.
Ciò che è interessante è capire l’operazione che Giannetto mette in atto. Lui stesso ama definirsi un “ladro di immagini”, ovvero un assiduo ricercatore di dettagli, volti, paesaggi e scorci pittoreschi che sono ormai entrati a far parte dell’immaginario collettivo, ma che appartengono anche, e prima di tutto, al suo cammino esistenziale. Così come, anni fa ha raccolto la lava del suo amato Vesuvio per racchiuderla in piccole valigie e “spedirla” agli amici nel mondo; come ha pazientemente collezionato fotografie e cartoline che riproducevano scorci tipici di Napoli (“Napoli sei bella da morire”, la città dove ha vissuto gli anni della giovinezza); o come, più recentemente, ha estrapolato dei fotogrammi con personaggi di vecchi film per crearne suggestive ed enigmatiche sequenze (“Cinema amore mio”); così, ora, Bravi racconta la “sua” Cina, quella che lui conosce, quella che tutti noi abbiamo imparato a ricono-scere nei nostri fugaci incontri metropolitani.
In un mondo che vive di icone di carta e di celluloide, che consuma ogni “scatto” e lo confonde con la realtà, la posizione di Giannetto Bravi diviene ancora più chiara e comprensibile. Realtà e finzione, apparenza e sostanza hanno confini sempre più mobili, tanto che il viaggio comincia, e spesso si conclude, sul catalogo dell’agenzia; il museo si visita molto più comodamente “navigando” in internet; un Paese si conosce attraverso le cartoline che riceviamo dagli amici o dalle pagine patinate di una bella rivista … Cosa vuol dire tutto ciò? Evidentemente significa che si è ormai avvezzi a prender per veri dei bei surrogati, creati sì ad immagine e somiglianza, ma, ahimè, privi di essenza. Non siamo forse stati capaci di ridurre una tradizione millenaria, com’è quella cinese, ad una semplice e quanto mai banale distrazione? Attenzione, però, il discorso di Giannetto non è né moralistico né, tantomeno, critico. Da buon osservatore Bravi registra e documenta quest’aspetto della comunicazione contemporanea e della cultura di fine secolo, lasciando che ciascuno assuma poi la propria angolazione visiva e teorica.
Il suo è semplicemente un invito, per una tazza di tè o una Glappa di lose da sorseggiare sotto un “finto” scenario orientale, fatto di fiori e leggiadre fanciulle, dipinto in origine, come augurio di felicità e prosperità, da un antico maestro cinese, poi ridotto a gadget pubblicitario ed ora rifotografato da Giannetto, che gli ha restituito l’onore e la dignità di un luogo d’arte.
In primo piano un tavolino in tipico stile dinastico sorregge gli strumenti di questo rito. Bravi ha ricomposto il giardino della casa del tè, il suo giardino: metropolitano bidimensionale forse, ma è un luogo in cui la tridimensionalità la si può trovare con l’aiuto della mente, con la riflessione e, perché no, con i ricordi. Qual’è, allora, il confine, qual misterioso punto d’incontro tra verità e finzione?


L’ospite se n’è andato,
io ravvivo il braciere,
parlo con me stesso
Shozan (1717-1800)
Lorella Giudici, Milano, Novembre 1999