Casa Mia Decor - Aprile 2001 di Annalisa Costantini

Siamo negli anni ’70, Napoli sta per affrontare una nuova speculazione edili-zia. Dalle pendici del Vesuvio sino ai suoi fianchi case su case si arrampicano, ingombrano l’ingrombrabile. L’abusivismo è legalizzato. Il mondo dell’arte si muove in difesa dello spazio e di quel gigante roccioso, simbolo vivo della città. Il critico Pierre Restany, in pieno periodo di Land-art, propone, insieme all’amico Gianni Pisani, di impossessarsi, metaforicamente e artisticamente, dell’area vesuviana, sottraendola, così, allo scempio cui è e sarà destinata. L’intento è di creare un parco culturale internazionale aperto agli artisti di tutto il mondo. Gli artisti napoletani rispondono all’appello. La manifestazione coincide con le elezioni generali e proprio per dare ad essa maggiore eco, Restany, tra lo stupore dei cittadini, organizza anche una fasulla campagna elettorale.
Gli esiti visivi di tale operazione collettiva vengono esposti nello spazio napoletano de “Il Centro”.
Giannetto Bravi, artista e geologo, nato a Tripoli nel 1938 e vissuto a Napoli sino al 1974, data in cui si trasferisce in Lombardia dove tutt’ora abita, è tra i primi a partecipare alla manifestazione, proponendo una valigetta numerata da 1 all’infinito: “Vesuvio in valigia”. Una piccola valigia gialla in cui sono contenute le rocce prelevate dal vulcano. Rocce come segmenti di un’unica entità da invaligiare, salvare, portar via… custodire, per poi ricomporre in tempi in cui non incomberà più, sul cono vulcanico, il pericolo della speculazione edi-lizia. Con la sua ironia, ma anche con il suo romanticismo Bravi sembrerebbe dire: ”Portiamocelo via”.
Come quella ragazzina che, al termine delle vacanze, preleva, raccoglie sassolini e conchiglie da custodire in città, porta con sé il mare e le scogliere affinché possa sentire quella vicinanza primordiale alla natura. Ma, in quei sassolini, in quelle conchiglie vi è anche il desiderio di mantenere viva e intatta la sensazione di quella lieve brezza marina sul suo viso fresco, di quel bacio al chiaro di Luna. Il desiderio di fermare l’attimo che, però, diviene più dolce quando è ricordo.
L’artista, qui geologo più che mai, elimina tanto le distanze fisiche intercorrenti tra uomo e natura quanto quelle temporali. La natura, in questo caso il Vesuvio, rappresenta emozioni, stati d’animo, metafora. Il Vesuvio, mutante ma eterno spettatore della Storia, delle rivoluzioni, artefice di tragedie, di fecondità e ricchezze, immagine che in sé incarna sensazioni e ricordi per la collettività intera, non solo napoletana.
Tutta la produzione artistica di Giannetto Bravi appare percorsa da un doppio filo conduttore: gli anni trascorsi a Napoli nella giovinezza e la volontà, cosciente illusione, di voler fermare il tempo. E se il tempo non può essere fermato, l’arte può fermare le immagini, fissare in esse i ricordi, forse… le sensazioni. Ma non è melensa nostalgia, anzi, di melenso Bravi ha ben poco! Ironico, provocante-provocatorio, coloratissimo.
Sceglie cartoline assolutamente uguali, le assembla, le dispone con ossessività in una ripetizione ipnotica, la stessa “iterazione allucinante” che Dorfles ravvisa nei lavori di Andy Wharol, dal quale, tuttavia Bravi si differenzia per la carica di napoletanità che lo caratterizza. Ora immagini neorealistiche di una Napoli anni ’30, ora immagini naturalistiche, ora folkloristiche. L’immagine, vagamente come in Rotella, non serve più alla sua funzione non comunica più quel che dovrebbe ma può essere comunque valutata come fatto estetico: la ordinaria, consumistica cartolina subisce una metamorfosi, diviene composizione astratta. L’occhio del fruitore è costretto ad una attenta messa a fuoco, ad una operazione intellettiva… uno scavare ancora. Macchie di azzurri e neri divengono, via via, particolari… l’osservatore riconosce, legge, ritrova immagini perdute… l’essenza del tempo e di ciò che nel tempo si è dissolto come dissolte in macchie di colore sono quelle cartoline.
Bravi il curioso, il collezionista, l’osservatore, il ladro di immagini constata, con “disincantata nostalgia”, che quel che si è perduto non è l’indispensabile ma quel che non è più non è sostituibile.
Nel ciclo “cinema amore mio” l’artista riflette ancora sulla fugacità delle immagini e del tempo. Nuovamente disloca l’oggetto, separa l’immagine dal contesto abituale, la isola, la mette in rilievo: dalla pellicola, con un complesso procedimento di trasporto di gelatina fotografica, riporta su tela. Fissa alcuni frame tratti dai suoi reperti, dalle sue scorie visive. E’ un cinema post-cine-matografico, il proiettore ha smesso di brillare per conferire la patina ferma ed opaca del ricordo. Da locandine di vecchi film, ci propone quei personaggi divenuti mitici, entrati nell’immaginario collettivo, icone, cariche di implicazioni emotive, che divengono romantici frammenti di un mondo lontano. Immobilizza espressioni, sorrisi, ingigantisce volti portandoli in una dimensione reale, cerca di fermare le emozioni che la pellicola del tempo, girando, porta via. Bravi lascia riecheggiare un “cinema-fabbrica dei sogni”, culto e religione povera, che nulla ha in comune con il “supermercato” cinematografico attuale, fatto di attori e facce intercambiabili, gadgets usa e getta.
E il “Cinema del barbiere”? Come nasce? “Abitavo in via Manzoni nel Palazzo della Quarta Funicolare… Un pianerottolo di esagerata superficie, era luogo comune di quattro appartamenti. In uno di questi, con una visione totale del golfo di Napoli, abitavano due sorelle nubili, un fratello scapolo e una vecchia zia calva dalla parrucca in equilibrio perennemente instabile. Le due sorelle erano sarte in casa, l’altro fratello era barbiere con negozio in Mergellina…
Questa circostanza e l’affiatamento creatosi nel periodo di guerra tra coinquilini di pianerottolo mi permisero il lusso, per molti anni della mia primissima infanzia, di usufruire del taglio di capelli a domicilio finché Mario, il barbiere, non si sposò. In seguito, nelle frequentazioni al negozio, nei periodi di festività… era uso che Mario, il barbiere, con fare ammiccante e di complicità, offrisse ai proprio clienti una bustina profumata con un calendarietto.
Oggi riporto alla memoria quei colori pastello, le inquadrature dai contorni grossolani e marcati, quegli idoli giovanili ormai perduti… cosa?… IL CINEMA DEL BARBIERE.
Il profumo, quell’odore cipria da bordello e un’altra storia che racconterò poi…”.
Ne “Il cinema del Barbiere” ritornano gli idoli giovanili ormai perduti: presentati in chiave vagamente Pop con accenti volutamente kitsch, come a voler sottolineare l’irrealtà che essi ormai rappresentano. Colori sgargianti in cui ritroviamo la maschera del clown, la coloratissima pirandelliana vecchietta.
Sfavillio di colori per coprire, celare quello che non c’è più… il colore colpisce, stordisce creando una dialettica del contrario, conseguendo l’effetto di esal-tare, amplificare la mancanza, di riportare alla memoria lo sbiadito ricordo che è solo sbiadito ricordo di tempi ormai lontani.
Tra il rosso sfacciato e il verde forzato, ecco Brigitte che gioca maliziosa, imbronciata, come sempre, ormai ingenua ai nostri occhi… Marilyn ci sorride, come solo lei sa fare, aprendo un varco di malinconia nell’animo… Sophia, nel giallo innaturale si mostra austera simpaticamente impacciata in quella giovinezza che il bisturi non può creare.
Dive immobili, fissate nella non-dimensione della realtà onirica, prelevate dal fondo di un cassetto scricchiolante e impolverato, volontariamente immobilizzate. Statue dirompenti abbandonano la tela, la patina del giornale e ci avvolgono in un ultimo tenero abbraccio.