Appunti sparsi (e quasi
autobiografici) per una mostra di Giannetto Bravi - 29 Maggio 2003 di
Alberto Brambilla Non so perché, ma mi hanno affibbiato la nomea di filologo, e non è una bella cosa. Si dice infatti che i filologi siano di solito dei vecchi rincoglioniti che sanno annoiare come pochi. E parlino di cose tanto pesanti quanto futili. Sono capaci di discutere per ore sulla posizione di un punto di domanda o di una virgola. Ma filologo è anche colui che ama o dovrebbe amare le parole, cioè i testi, i libri. E quindi dovrebbe essere in qualche modo autorizzato a parlare del lavoro di Giannetto Bravi, almeno per la sezione riguardante i cosiddetti “libri d’artista”. Tanto più se si compone in dittico o trilogia, dunque in una sorta di coerente e coeso macrotesto bi o tripartito, nel segno del Vesuvio, di Pompei e di Capri. In apparenza un inno alla napoletanità o a qualcosa di simile, in sostanza molto altro.Ciò che seguiranno saranno dunque appunti sparsi (più domande che risposte) di un filologo e, ancora di più, di un bibliofilo. A dire il vero, io non so bene cosa siano i “libri d’artista”, etichetta che vuol dire tutto e niente. Proverò tuttavia a cercare di capire qualcosa insieme a voi, con qualche riferimento che sprofonda persino nell’antichità, come del resto invita a fare l’origine iconografica e culturale delle opere di Bravi, che non di rado riutilizza reperti del mondo classico. Artigiani - parola che ha la stessa radice d’artista - erano coloro che grazie alla loro abilità tecnica preparavano il supporto su cui scrivere; volume, ad esempio, significava in origine qualcosa di arrotolato; e si arrotolavano i papiri, ossia gli antenati dei libri. Dai papiri ai codici manoscritti. Codice deriva da caudicem, e significava pezzo d’albero, ossia tavoletta di legno, su cui si scriveva, appunto. Il codex era dunque, un tempo, composto da una raccolta di tavolette. Stiamo già descrivendo una “forma libro” in evoluzione: libri da srotolare, quasi oggetti-libro, non appena dalla scrittura, dalla superficie (ricca tuttavia di ineguagliabili profondità) si passi al supporto. Allevatori ed artigiani erano coloro che producevano le pergamene o cartapecora, e infatti ci voleva un gregge d’armenti per costruire fisicamente un libro. Ma artigiani erano i copisti, i calligrafi e i miniaturisti. I codici miniati sono forse i primi consapevoli libri d’artista, almeno secondo il nostro punto di vista, soggettivo ed individualista, figlio del romanticismo. Come avrete notato ho parlato solo della struttura esterna, della fisicità del libro (di cui anche la grafia, la scrittura, è parte integrante), non del contenuto ideologico e concettuale. Ma se radicalizziamo le definizioni - che invece volevo rimanessero sugge-stioni - artigiani-artisti sono i tipografi, i rilegatori, gli illustratori, così come in qualche modo - li ho lasciati apposta per ultimo - gli scrittori che lavorano e plasmano la lingua che poi riversano nei libri. Artigiani sono ovviamente i pittori, gli scultori, i fotografi, e tutti quelli che oggi - Babilonia dei linguaggi e dei segni - definiamo artisti. Poi ci sono gli artigiani del virtuale, che alla mano hanno sostituito una protesi plastica, il mouse. Sono queste delle provocazioni che hanno uno scopo puramente dimostrativo. Discutere intorno ai libri d’artista è dunque abbastanza complesso; di norma oggi se ne parla a proposito di libri illustrati da xilografie, incisioni, acqueforti, oppure interventi diretti, collages ecc, dove c’è comunque una presenza ed un rapporto tra testo scritto e figura, a volte paritetico, a volte squilibrato in una direzione. Ma anche qui le cose si complicano. Erano in effetti già da sempre complicate, se per esempio pensiamo ai carmina figurata, che peraltro partono dagli antichi greci per arrivare ai calligrammes e ad altre forme più sofisticate rese possibili dalle macchine da scrivere e dai PC. Qui la struttura è anche forma, crea con se stessa figure. E di mezzo c’è la rivoluzione tipografica dei futuristi, il libro che diventa illeggibile, ossia ombra e corpo di se stesso, oggetto-libro. E si arriva così agli esperimenti a noi più vicini, indefinibili nella loro varietà, dove tuttavia appare chiara una tendenza: il testo scritto nella lingua tradizionale con i consueti caratteri tipografici tende a scomparire, o comunque non rimanda a un contenuto narrativo, ma ad una forma, ad un ricordo, un eco, in cui si ricompongono gli antichi gesti dello srotolare, dello sfogliare, del prendere tra le mani… Quella di Giannetto è appunto un’esperienza speciale, che merita una qualche attenzione. I libri suoi sono per molti versi atipici. Non sono pezzi unici, ma sono prodotti in pochissime copie, sette, che è un numero magico, esoterico. Hanno tuttavia la forma esterna del libro, ne conservano lo scheletro, l’osso piatto della copertina, la spina dorsale dell’ampia costa; mantengono la riconoscibilità dei singoli fogli: sono libri dunque sfogliabili a tutti gli effetti; vi è una parvenza di successione cronologica, vi è un testo introduttivo, una dedica, un editore, un colophon. Non è un caso, Giannetto ama i libri, ha lavorato a lungo per costruire dei libri tradizionali; si è innamorato dell’involucro e-sterno, della carta, dei materiali, insomma della parvenza libro, che dunque in qualche modo rispetta. Dico così perché se guardiamo all’interno non esistono le parole, e se ci sono è un caso, sono lacerti tendinei, frammenti appendici didascaliche di illustrazioni di luoghi speciali, appunto il Vesuvio, Pompei, Capri. Che libro è mai questo non – libro? Se non conoscessi l’intelligenza ironica di Giannetto, lo definirei un Calepone, o, meglio, se pensiamo alle dimensioni un Bigiamone una specie di bigino, una Treccanina partenopea per scolaretti svogliati (e d’altronde Giannettino non è un personaggio di Collodi, un cugino di Pinocchio?). Perché Bigino? Perché in qualche modo consente di avvicinarsi al cuore della poetica di Bravi, ad una sua sintesi. Infatti esso racchiude una serie di tavole (o fogli) - adeguatamente firmati e dunque autenticati - che ripropongono “in miniatura” diversi lavori che di solito hanno maggiore dimensione. Il gioco è però identico. Il tripolino napoletano Giannetto recupera ovunque immagini normali o addirittura stereotipi e li moltiplica assecondando la loro insita voglia di serialità. Li affratella, porta a compimento la loro fine, la accumulazione illimitata, che porterà l’Occidente alla vera ed ultima fine. Dunque nulla di più banale, uniforme, perfino stucchevole. E invece no. L’occhio umano, non ancora completamente sclerotizzato - forse guidato da una memoria o da strani processi cerebrali - come allettato da trappole ottiche ridefinisce, rigenera, ricerca quei vuoti semantici, quelle serie che dovrebbero produrre solo monotonia. E con il cervello o l’emozione o il sentimento o la cultura - o tutto insieme riparte per un nuovo viaggio conoscitivo a partire da quella zavorra figurativa, ora riciclata e rintestata nella discarica dei nostri occhi. Tutto si rinnova nulla si distrugge. Il libro, la pagina, si rianima, acquista lette-ralmente vita. Gli scheletri si ricompongono, gli zombi camminano, alle falde del Vesuvio si intrecciano nuove storie e nuove vite. Se siano migliori o peggiori di quelle reali, non tocca me dirlo. Forse a voi. |