“Copiare qualsiasi
cosa, purché il gesto della mano sia conservato” R. Barthes Chi ha conosciuto Giannetto Bravi, anche per un solo breve frammento, non può non essere rimasto affascinato dal gusto ironico e dalla solare cordialità con cui usa condire la propria esistenza. E chi conosce la sua arte, non potrà non concordare che la simbiosi ‘artista-opera d’arte’ è pressocché totale. Fin dai suoi esordi, infatti, il buon Giannetto ha usato l’arma del grottesco, dell’ironia, della bêtise flaubertiana come sua cifra espressiva più caratteristica. Dissacrante lo è stato fin dall’inizio, complice forse – o meglio senz’altro – la sua vicinanza alla poe-tica del Nouveau Réalisme, cui si approcciava, affiancato e stimolato da quello straordinario spirito speculativo che apparteneva a Pierre Réstany. Guai però a pensare all’arte di Giannetto Bravi come a una semplicistica trasposizione del proprio essere giocoso. In una società dell’immagine com’è quella in cui stiamo vivendo, in cui tutto si riconduce a una semplice e semplicistica riduzione dei concetti fondanti della nostra società, Giannetto ha ben capito che il ricorrere a degli ‘idola’ è quanto di più necessario per partire e per condurre una sorta di dialettica esasperata di riappropriazione, attraverso la loro distruzione e deformazione. Non si discosta da questa linea d’indagine nemmeno la sua ‘Quadreria d’arte’, un progetto ‘utopico’ di ricondurre in una stanza tutti i più grandi capolavori dell’arte di ogni epoca. C’è tutto Giannetto Bravi in questo che possiamo considerare come il suo lavoro più maturo, o almeno più complesso. Il suo ‘Museo di tutti i Musei’ è un tributo che suona come una condanna della mitizzazione delle immagini di largo consumo come sono quelle stampate sulle cartoline cui abbiamo facile accesso in qualsiasi book-shop di museo o sedi espositive temporanee. Il suo è un linguaggio che si mutua dalla Pop art, dove la riproduzione di un Rembrandt, di un Piero della Francesca, di un Raffaello è trattato alla stessa stregua di una lattina di salsa di pomodoro o di un fustino di detersivo. Che altro sono diventate le opere d’arte, se non prodotti di consumo di una società industriale di massa che ha disimparato il valore della creazione artistica? Sono simboli ormai privi di senso quelli che Giannetto banalizza e anestetizza, assemblandoli in composizioni multiple, incorniciandoli ed esponendoli in allestimenti affollati che tanto ricordano le claustrofobiche quadrerie dell’Ottocento. Già l’Ottocento, il momento storico in cui si dà sfogo all’idea illuminista di classificare tutto, di racchiudere in dizionari e per categorie tutto lo scibile umano. Ma è anche il momento storico della crisi della verità; il momento storico della crisi della modernità, in cui tutto quello che si riteneva fondante perde di senso. È il momento in cui Flaubert scrive ‘Bouvard et Pécuchet’ - romanzo rimasto incompiuto – dove due grigi impiegati, scapoli, si impegnano, una volta dimissionati dal lavoro, a ‘collezionare’ ogni sorta di sapere umano, leggendo ogni libro come se ciascuno contenesse, di volta in volta, la verità rivelata, inconsapevoli che il loro sforzo fosse necessariamente destinato al fallimento. Anche l’operazione di Giannetto è destinata a non concludersi mai. Ma lui ne è ben conscio; e non solo a livello materiale: ci sarà sempre una cartolina che non è riuscito a trovare, un’immagine che è sfuggita al suo fiuto di segugio. Ma il suo non è e non sarà mai un fallimento. Quella che mette in scena è più che altro una condizione umana esistenziale, quella che Heidegger chiama come «l’eterna possibilità, la possibilità eterna», e che si potrebbe concretare nella figura kierkegaardiana del Don Giovanni, l’ideale estetico per eccellenza che si disperde e dissipa il piacere nella quotidiana ricerca del particolare, perdendo di vista l’ideale universale. È lo scherzo dell’ironia che Giannetto Bravi sventola al mondo intero, sperando che il mondo intero riesca ad andare ben al di là e ben al di dentro di quello che la rappresentazione fenomenologica ci porta a considerare. Carlo Ghielmetti |