Il Rinascimento non è un’epoca, ma un temperamento

Viviamo solo per scoprire nuova
bellezza. Tutto il resto è una
forma d’attesa.

Kahlil Gibran

L’Arte, pur prendendo continuamente spunto dalla realtà, non si confonde mai con la cronaca dei giorni (anche quando è racconto), poiché agisce ad un livello più alto della quotidianità, arrivando a fissare un giudizio, spesso misconosciuto al momento, che va al di là del tempo, quasi a voler anticipare l’essenza più autentica di ogni vicenda e di ogni epoca.
Ciò succede perché l’artista, nella ostinata ricerca di una bellezza suprema, che sia totale e compiuta, matura dentro di sé una prioritaria esigenza di ri-spetto della memoria, con la quale si confronta ripetutamente.
La memoria è la grande assente di questi ultimi decenni nel campo dell’Arte anche se ciò è in forte contraddizione con le scoperte tecnologiche che hanno portato alle potentissime memorie informatiche.
Quando parliamo di memoria non ci riferiamo ad un insieme - per quanto vasto - di conoscenze, ma alla piena cognizione dell’Essere e del suo agire nell’ambito della storia, di cui l’Arte è parte integrante, in quanto ne evidenzia incessantemente, dagli albori ai giorni nostri, le aspirazioni. Ezra Pound interpreta bene questo spirito quando afferma: “Il Rinascimento non è un’epoca, ma un temperamento”. Da critico illuminato ben comprende come l’arte, in quanto vicenda dello spirito, non possa essere irreggimentata a livello temporale e pone a chi l’affronta con tale consapevolezza la necessità di un rinnovamento che non precluda mai un richiamo alle radici, sia pure latente. Tant’è che poi commenta: “Il valore di ogni cosa è offerto dall’eredità culturale”.

Giannetto Bravi ha iniziato ad interessarsi di cartoline con una certa assidui-tà verso la fine degli anni Settanta. Una attrazione dettata da motivi diversi: necessità di documentazione visiva, curiosità, possibilità di riflettere anche a posteriori attorno ad una immagine e di indagare un artista, una forma, un colore. Scelte mai occasionali, effettuate sempre con un gusto raffinato, dettate da un lucido senso critico e da una profonda considerazione artistico culturale del reperto iconografico. Sino al punto che in lui matura l’idea di farlo diventare materia viva della sua espressione.
Una operazione non semplice poiché la scelta, l’accostamento, la stessa dimensione sequenziale vengono di volta in volta ponderate secondo valori che non rispondono più al singolo segmento cartaceo, ma tengono conto di una polifonia complessiva, in quanto l’insieme, pur non perdendo (anzi, rafforzando nel contesto) l’identità della singola riproduzione, diventa, sotto il profilo compositivo, un corpo ‘altro’, nel quale un segno, un particolare, una tonalità, una piccola stesura, si trasformano, nella continua riproposizione, in un nuovo, autonomo valore pittorico.
Il fatto è che l’artista prende atto dell’usura che l’immagine subisce (che può essere data tanto dalla mancanza di una diffusa conoscenza, quanto da una sovraesposizione che la riduce a consuetudine) e tende a recuperarla, ridandole possibilità comunicative, ma anche offrendo alla memoria uno specifico ed attuale valore di contesto.
E’ così che il manufatto (inteso nel senso ingegnoso del termine) acquista un suo ritmo (poiché passa dalla stasi dell’immagine riprodotta al moto della composizione), una sua dimensione spaziale, una propria valenza narrativa ed un suo particolare assillo emotivo. Nel contempo, l’immagine riportata sulla cartolina, sostanzialmente fine a se stessa, passa dal registro figurativo ad una logica tendenzialmente astratto-speculativa, prestandosi ad una proiezio-ne mentale che usufruisce della complicità di un tempo elastico (l’emersione dall’oblio) e che si apre a innumerevoli rapporti visivi e psichici.
La mostra che poi Giannetto Bravi allestisce al Museo di Capodimonte si arricchisce di nuove motivazioni ed ulteriori singolarità espressive.
A nostro giudizio, la suddivisione fra paesaggi, nature morte e ritratti è innanzitutto di ordine mentale poiché l’artista tenta, riuscendoci, di produrre una continuità di tematica che vada oltre le singole datazioni, i vari registri, le diverse chiavi stilistiche, per proporre un livello di realtà più organico di quello del singolo frammento. E’ come se l’artista indagasse il composito deposito d’arte internazionale per arrivare ad un’immagine assoluta. Un’immagine che si è formata lentamente, come una stalattite, apporto dopo apporto.
E’ proprio l’insieme, composto a tessere, che dilata la prospettiva globale dei paesaggi, trasformando i particolari di ogni evidenza in un armonico spartito nel quale risuona la complessità dei fenomeni naturalistici e la loro immanenza. Le nature morte hanno invece l’impronta del vivere quotidiano, circostanziando momenti, forme, situazioni e stabilendo una serie di relazioni e riferimenti, interni ed esterni, che rendono visiva e concreta una compatta interdipendenza fra gli esseri e le cose.
I ritratti e gli autoritratti acquistano invece, nel loro continuo succedersi, una valenza collettiva. Qui non vi è più il personaggio e la sua storia personale, ma è la vicenda umana, nel suo complesso, a scandire tensivamente i passi della vita ed i silenzi della morte.
Ci sarebbe infine da chiedersi perché siano state scelte icone così diverse ed a quale logica di ricerca appartengono. Ma qui non c’è nulla da spiegare. Ed il poeta (sempre Gibran) lo rende bene in un suo aforisma: “L’ispirazione canterà sempre; l’ispirazione canta, non spiega”.

Ettore Ceriani