ICONOGRAFIA BEFFARDA Nell’aria si respira odore di passato, di vite d’altri tempi, di ricordi rapiti a passanti distratti e segretamente riposti dove nessuno poteva scovarli. Le cartoline non ancora utilizzate giacciono immobili dentro scatoloni, affiancando le decine di pubblicazioni impolverate e rilegate con cura, surrogato delle innumerevoli mostre allestite qua e là in Italia, dal 1966 a oggi. Ovunque ci si giri si vedono solo quadri, di ogni dimensione e colore, opere composte da centinaia di altre cartoline, una affianco all’altra, identiche, circoscritte in cornici realizzate con ogni sorta di materiale e decoro. Dalla porticina di questo laboratorio o magazzino della creatività, entra Giannetto Bravi, e la sensazione è quella che si prova quando si vede una sua opera per la prima volta, una sorta di impatto stile Amarcord di Fellini. L’incontro in sé racchiude l’eleganza e la signorilità borghese di un tempo per bene che se n’è andato in punta di piedi, trovando dimora solo in alcuni luoghi e figure, anche se dentro un deposito. La galanteria e la gentilezza delle gesta e nelle vesti di questo artista sembrano essere direttamente proporzionali alla malinconica ed eterna bellezza di ciò che il passato conserva, una sorta di avvenenza fissata nell’immagine di ciò che l’uomo genera e difende, come dimostrato dalle cartoline stampate qui raccolte. Bastano poche ore in compagnia di Giannetto per ricordare il sapore delle Madeline di Proust nella Recherche, ritrovando quella sensazione racchiusa nella frase “la vita è quella scemenza in cui tutto il mondo perduto della giovinezza, a volte, può riemergere d’un tratto nel sapore di un biscottino inzuppato nel tè”, citata da Antonio Scurati. Il paragone con Proust e l’opera composta dai sette volumi non è poi così azzardata e lontana dalla realtà che si presenta davanti agli occhi nella personalissima Quadreria d’Arte di Bravi. Nonostante ciò possiamo sostenere che la sua non è la ricerca della verità attraverso il tempo, bensì la ricerca del tempo attraverso la verità delle immagini popolari per antonomasia , le cartoline per l’appunto, o le stampe di locandine e quant’altro l’industria di souvenir e manifesti abbia prodotto in questi ultimi trent’anni. Il suo non è collezionismo, quanto la voglia di schernire il tempo e le sue icone, le sue fissazioni, i suoi miti di cartapesta e le sue dee temporaneamente eterne. Non posso credere, guardando questo signore nobilmente partenopeo d’animo, che la sua colossale antologia e la derivante produzione di opere attraverso la stessa non sia una beffa, la presa in giro del tempo che passa portandosi via tutto, senza distinzione alcuna. Non posso credere che nella sua maniacale e ossessiva raccolta iconografica di opere d’arte, oggetti, pin-up del cinema in bianco e nero o paesaggi, di immagini scovate nei mercatini nascosti in angoli dimenticati del mondo, o in grandi ed efficienti musei, non ci sia l’intento di raggirare e schernire il comportamento dell’essere umano davanti al lucido e perverso desiderio di possedere la foto ricordo da spedire, trasformando spesso il retro, al di sotto del francobollo e affianco all’indirizzo, in messaggero di parole impronunciabili o illegittime, verso amati e amanti che la vita sottende. I suoi quadri parlano chiaro, fuori dalle righe. Utilizzando le medesime immagini accostate in sequenza si ha la percezione di un qualcosa di diverso da quello che il singolo elemento esprime. Si ha l’impressione di vedere altro, una sorta di mistificazione dell’icona sacra, rappresentata oltre le canoniche figurazioni, una specie di architettura della memoria in cui ogni singola cartolina costituisce il mattone, come sostenuto da Pierre Restany in un dibattito tenutosi alla Galleria Milano nel 1976. La stessa cosa la ritroviamo qui, nel 2007, in uno spazio pubblico lontano dal suo laboratorio, tra i centocinquanta quadri che racchiudono ritratti e autoritratti, volti muti che ci guardano con sguardo leggero e beffardo, altolocato nelle loro cornici colorate, elementi di una coreografia più grande, di una geometria più ampia che, ancora una volta, va oltre il singolo elemento. Da lontano le opere sembreranno segnate dai tratti di un artista appassionato, contraddistinte da linee sfumate con precisione ad opera di un pennello austero e felice che ne determina il disegno. Avvicinandoci scopriremo invece il trucco, il gioco con cui Bravi crea un’opera nel presente regalando leggerezza e futilità a ciò che singolarmente ha avuto un peso nel passato, nella storia privata o comune di molte persone, dagli anni settanta a oggi. Così ci avvicineremo rapiti dai tratti confusi dei quadri per poi ritrovare con nitidezza la forma originaria dei singoli volti nei quali riconosceremo qualcosa di elementare e quasi familiare, la malinconia di una bellezza d’altri tempi che solo un’attenta memoria manterrà viva tra le reminiscenze dell’immaginario collettivo. Non posso infine credere che Bravi abbia escogitato tutto questo senza un senso, facendoci credere distrattamente di essersi dimenticato che ogni ricordo può ritrovare nuova utilità e forma, anche in un presente oberato di immagini e messaggi qual è il nostro. Non posso crederlo. Non è così, infatti, e sarà proprio lui ad insegnarcelo avendo, dal canto suo, scoperto l’immortalità dell’immagine molto prima di noi. Jessica Anais Savoia |