Una grande
galleria democratica Giocando sul filo dell’ironia (o del paradosso) Giannetto Bravi ha fatto di sé il più grande collezionista d’arte al mondo e poco importa se ogni opera si presenti in forma di cartoline incollate (quattro, sei, nove, dodici, a seconda dei casi) piuttosto che nella sua qualità di unicum sottratto all’usura del tempo e affidato alla preziosa aura del museo. Neanche l’Hermitage, neanche la collezione Goulbenkian di Lisbona o il Thyssen-Bornemisza di Madrid o il Paul Getty Museum di Los Angeles possono competere davvero con questo fantastico tracciato d’arte che corre lungo l’arco di sei o sette secoli di pittura, nulla o poco tralasciando nella sua intenzionalità, e mettendo insieme, confrontando, accostando - quasi con sublime strafottenza - i capolavori del passato al meramente fattuale, il più eclatante dei realismi al più elusivo dei manierismi, Valerio Adami a Sandro Botticelli, Bernard Buffett a Caravaggio, Mary Cassat a Fragonard, Osvaldo Licini a Giovan Battista Moroni, Pellizza da Volpedo a Lawrence Alma-Tadema e via tumultuosamente affiancando e sovrapponendo fino a costruire una universale galleria di cui Giannetto è allo stesso tempo, in un stralunato sdoppiamento di funzioni, supremo reggitore e semplice custode. C’è un pittore – tra l’altro ospitato nella Quadreria-Bravi – che mi ha sempre colpito in ragione della sua singolarità. È un artista di grande sapienza pittorica che asseconda il gusto antiquario del suo tempo restando lontano però dalla potenza visionaria di Piranesi. Sto parlando di Giovanni Paolo Panini e della sua grande tela: Vedute di Roma antica. Che cosa mostra il quadro? Ecco, si vedono degli eleganti signori che s’aggirano in un enfatico ambiente da villa suburbana colmo di tele e di sculture. La luce arriva da un giardino posto al di là di una galleria ricca di statue antiche. Vi sono sculture anche in primo piano: la grande figura dell’Ercole che entrerà nella collezione Farnese, il Galata morente, il gruppo del Laocoonte. Alle pareti un vertiginoso accostamento di tele che dal pavimento al soffitto celebrano la grandezza di Roma: il Colosseo, il Pantheon, l’arco di Costantino, il tempio di Vesta e così via. Tutto è così affastellato che molte tele e sculture sono negligentemente buttate in un angolo. Parrebbe insomma il deposito di un mercante d’arte se il lusso dei dettagli, gli angioloni a reggere una grande tela in alto, i broccati, la grazia di quei piccoli vasi di fiori, la dignità dei personaggi che animano la scena non facessero pensare piuttosto a un luogo di grandi frequentazioni d’arte sul modello di quella Villa Albani dove a lungo operò Winckelmann. Ma che c’entra Giovanni Paolo Panini con Giannetto Bravi? C’entra per il fatto che Giannetto ha ricalcato per la sua Quadreria d’Arte – seppure involontaria-mente – proprio il museo immaginario del Panini, anche se ci dice d’essersi ispirato in realtà a Palazzo Pitti (dove le opere ingombrano le pareti costringendo lo spettatore a un continuum di visione estetica che toglie il respiro). Ma il museo del Panini, proprio perché immaginario, soddisfa più di Palazzo Pitti quella che è la direzione verso cui tende l’arte di Giannetto Bravi: un accumulo inesausto di materiali iconografici (Panini li traeva dall’arte classica romana, il Nostro dall’arte occidentale con qualche affondo nell’Oriente) che poco ha da spartire, credo, con la congelata perfezione del celebre museo fiorentino. Ma c’è un altro elemento che segna la diversità del collezionismo di Giannetto Bravi nei confronti di tutti gli altri: non solo la enorme congerie di opere in suo possesso (il museo dei musei) ma la sua “democraticità”. Bravi ci dice che tutti, in fondo, possono seguire le sue orme; non solo tutto ciò costa poco o nulla (il prezzo delle cartoline più la fatica di cercarle), ma ci spiega con didattica semplicità - alla maniera di un artista medievale che si rivolga ai suoi disce-poli “a bottega” - come “incollare cartoline” fino a comporre un’opera, svelandoci nel contempo tutte le piccole astuzie del mestiere, dall’uso della colla alla pulizia dei pennelli, alla eliminazione dei granuli, al posizionamento delle immagini sul supporto. Resta l’originalità dell’assunto, che spezza l’egemonia delle grandi collezioni d’arte (dei Goulbenkian, dei Thyssen-Bornemisza, dei Paul Getty evocati prima) frantumandole e moltiplicandole in un iridescente gioco di specchi che ognuno può tentare di riproporre a suo rischio e pericolo. Come per il finale di un celebre film di Orson Welles: La signora di Shanghai, i cui fotogrammi potrebbero entrare di diritto nella Quadreria-Bravi. Sergio Lambiase |