1998
Sesto Calende (Va)
Spazio Cesare da Sesto
Cinema amore mio

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Cinema amore mio

Ormai da tempo Giannetto Bravi dà vita alle sue opere cristallizzando sulla tela, attraverso complessi e sempre aggiornati procedimenti tecnici, le tracce visive di mondi lontani, passati, incagliati nel labirinti dell'anima, che ne conserva soltanto frammentarie impressioni.
Si tratta di rappresentazioni fotografiche, pazientemente raccolte dall'artista con quel gusto preciso, dal piglio quasi catalogatorio tipico dell'amatore collezionista, che si rivelano capaci di far fremere le corde della nostra emotività agitando i fantasmi della memoria.
L'immagine del soggetto ritratto che diviene essa stessa, in se stessa, il soggetto dell'opera di Bravi, è scelta dall'artista con consapevole oculatezza, con un atteggiamento per certi versi duchampiano, ma privo di valenze metalinguistiche o provocatorie, bensì ricco di sfumature crepuscolari, per certi versi estetizzanti; è preferita per i valori connotativi e i significati aggiunti che essa, e non un'altra, è in grado di evocare e, sottratta al suo contesto preesistente, viene salvata dall'indifferenza cui era altrimenti destinata, per essere isolata, ingrandita, messa in rilievo e tradotta in una nuova veste, in un'altra dimensione, quella specifica dell'arte.
L'universo artistico di Bravi, dunque, vive fondamentalmente di immagini, di figure virtualmente esistenti sulla tela, che non sono però le icone piatte e superficiali tipiche della nostra società massmediologica, della comunicazione televisiva e delle sofisticate creazioni pubblicitarie disseminate ovunque intorno a noi. Protagonista dell'opera di Bravi non è un simulacro soltanto virtuale, fantasma antagonista rispetto alla realtà, non è una effigie che ormai vive di vita propria, indipendente dal suo referente nel reale. Anzi. Ogni singola opera si offre non semplicemente per il suo valore intrinseco, puro, palesemente esplicitato, ma più sottilmente in quanto veicolo di memorie sopite, di ricordi quasi perduti, di emozioni che toccano il registro dell'interiorità, quasi dell'inconscio. Sono veri e propri attimi di esistenza umana, vestigia di vite passate, frammenti testimonianti il flusso del tempo e degli eventi, immagini insomma che non hanno valore in quanto tali, ma che danno testimonianza di un loro vivere anteriore e indipendente rispetto all'intervento dell'artista, di una vita che giunge a noi sedimentata e decantata attraverso la sublimazione dell'arte, e che per questo, proprio in quanto rivissuta e ricordata, è divenuta quasi più vera e indimenticabile.
Bravi predilige le fotografie che rivestono per lui un particolare significato affettivo, spesso animate da volti antichi, bloccati in espressioni ormai innaturali, cariche di richiami, anche estetici, ad un tempo remoto; ama impiegare locandine di vecchi film, dal sapore marcatamente rétro, che ci propongono, in un aura quasi magica, personaggi divenuti mitici, entrati di diritto nella storia del cinema, non meno che nell'immaginario collettivo di tutti noi; ricorre a vecchie cartoline, anche palesemente maltrattate dal trascorrere degli anni, le quali, già iconograficamente cariche di implicazioni emotive, vengono spesso arricchite da scritte che ne testimoniano esplicitamente il vissuto e persino, in taluni casi, vivificate da messaggi autografi del protagonisti di questo mondo sospeso nelle maglie del tempo che, come un archeologo, Bravi ricostruisce di fronte al nostri occhi.
Proprio quest'intento archeologico pare essere il movente sostanziale del suo lavoro: egli sembra possedere una sorta di innato istinto che lo spinge a raccogliere e collezionare immagini, non tanto per il gusto del possesso personale, quanto per il desiderio che è quasi una necessità, di proteggere, conservare, salvare, a dispetto del tempo e dell'oblio, il sentimento di cui esse si sono fatte incarnazione. E le radici di questo atteggiamento sono profonde. A Napoli nel 1972 Bravi è accanto al critico Pierre Restany che diede vita all'Operazione Vesuvio, partecipando con un interessante progetto di invaligiamento del cono vulcanico che si poneva l'obbiettivo di salvare, anche fisicamente, l'integrità di quel luogo naturale: ciascuno del partecipanti avrebbe prelevato una piccola porzione di lava vulcanica conservandola nel tempo con la finalità di ricostituirne, in un momento futuro, l'originaria unità. L'operazione non fu ovviamente dettata semplicemente dall'intento letterale di proteggere una bellezza della natura duramente minacciata dall'intervento umano: salvare il Vesuvio, tradizionalmente assurto a simbolo di Napoli, significava preservarne non soltanto l'esistenza materiale ma anche le emozioni e i sentimenti ad esso legati, custodire insomma la "napoletanità" che esso incarna.
E su questo registro, sin da allora, Bravi ha continuato ad operare utilizzando, come reliquie, seppur illusionistiche, del reale, le immagini che in quanto tali sono già di per sé cariche di un valore che travalica la mera fisicità. Attraverso questi reperti di un universo più articolato, che trova precise corrispondenze nell'interiorità dell'artista, egli non si limita però a riannodare le trame del suo vissuto autobiografico: i protagonisti di questo mondo, della sua arte, non scatenano unicamente il ricordo di matrice proustiana, un rimosso intimo e personale, ma attingono la loro vita alle fonti di un immaginarlo che si può effettivamente definire collettivo.
È infatti componente essenziale, irrinunciabile, del lavoro del nostro artista il rapporto con la realtà, interpretata nell'accezione eccessivamente oleografica, ma sicuramente popolare, dell'emblema, del "luogo comune", intendendo con questo termine, niente affatto dispregiativo, un aspetto del reale che può essere ampiamente condiviso da molti. Le fotografie, le locandine o le cartoline di Bravi non sono altro, quindi, che romantici frammenti di un ricordo comune, di un mondo lontano che si rivela però capace di suscitare una forte eco interiore in ognuno di noi, riportando allo stato di coscienza le impronte di un passato che, in quanto patrimonio della memoria collettiva e non solamente retroterra personale dell'artista, va inteso come storia, seppure nell'accezione folkloristica e popolare di vita vissuta quotidianamente dal popolo e non in quella "tragica" di avventura praticata degli eroi.
Ecco il tema della cultura napoletana, evocata e suggerita attraverso le abitudini, i costumi e i personaggi che ne sono divenuti per antonomasia il simbolo, tema più volte affrontato dall'artista, non soltanto con singoli pezzi ma con intere mostre di carattere monografico. Ed ecco, tra le tematiche che più gli stanno a cuore, anche l'amore per il cinema, espressamente dichiarato con questa mostra, sin dal titolo.
La fabbrica del sogni per eccellenza, quel non luogo che diviene luogo dell'anima, immaginario, fittizio, ma vero quanto solo una fantasia può esserlo, si è frequentemente trasformato nell'oggetto della riflessione artistica di Bravi.
Dopo "Il cinema del barbiere", in occasione di questa nostra mostra egli si abbandona nuovamente alle suggestioni della cellulolde. Ma, in altra accezione.
In quel caso Bravi aveva creato un vivace ciclo di opere, risolte formalmente in chiave vagamente pop, che volevano essere un affettuoso tributo alle star cinematografiche del tempo passato: i grandi divi campeggiavano su ampie tele colorate, in alcuni casi rigidamente bloccati nella fissità del fotogramma, in altre opere colti in atteggiamenti maliziosi e sfacciati, seppur ai nostri occhi, ormai, soltanto ingenuamente. La malinconia per "quegli idoli giovanili ormai perduti" (... sono le parole dell'artista stesso) si incarnava nella stilizzata immobilità dell'icona smaccatamente sintetica, nell'impianto formale da manifesto e nell'artificiosità del colore, forzato e innaturale, elementi tutti che sottolineano l'irrealtà di ciò che è rappresentato e, quindi, il distacco tra il mondo reale e quello degli idoli che, proprio in virtù di quello scollamento, sono tali, cioè personaggi di un mondo soltanto fantastico ed immaginario.
Questa volta, invece, Bravi, si accosta alla settima arte con altro spirito, seppur sempre disinteressato alle specifiche dinamiche espressive del cinema, del quale gli stanno a cuore soltanto le emozioni che è in grado di trasmettere e con il quale egli non è minimamente interessato a misurare, a livello comunicativo e formale, la propria opera.
In questi nuovi lavori, particolarmente raffinati, eleganti e in alcuni casi non privi di glamour, come i ritratti delle due dive Assia Norris e Jeanette Mac Donald, Bravi dimostra una differente sensibilità.
Con l'eccezione delle accattivanti e brillanti locandine in technlcolor di alcuni celebri film, Mr. Superinvisibile, The stranger wore a gun, The Blazing Forest, la cui espressività è ancora formalmente molto emblematica, nelle opere qui in mostra l'artista insiste particolarmente nella ricerca del massimo realismo mimetico dell'immagine, che viene assolutamente privata di ogni sfumatura fumettistica o da cartoon, resa perfettamente nitida, completamente autonoma e compiuta dal punto di vista del riscontro naturalistico, fino a raggiungere esiti quasi iperrealistici, anche grazie al notevole ingrandimento cui viene sottoposta; arriva persino a sfiorare in Notte nuziale il "tromp-l'oeil mentale", che ci fa immaginare di trovarci effettivamente di fronte ad uno schermo cinematografico, avvinti dal fascino sensuale di Rodolfo Valentino. Sono, queste, opere caratterizzate da una estrema e rigorosa precisione filologica - come testimoniano le ricostruzioni ambientali ed architettoniche cui viene dato ampio spazio - lontane da ogni giocosità pop, come da certi accenti volutamente kitsch non sempre estranei al fare del nostro artista. Bravi ricostruisce con questi lavori un universo di suggestioni sottili, di sensazioni sofisticate, in molti casi concentrando pressoché tutta la carica emotiva dell'opera nei volti e negli atteggiamenti del personaggi ritratti: il sorriso, lo sguardo, la posizione del corpo o soltanto delle mani del protagonisti di queste grandi tele, sono, di per sé, estremamente significativi, ci catturano, bucando metaforicamente lo schermo, e ci conducono nel loro elegante mondo, venato, al nostri occhi e per i nostri cuori, di una intensa malinconia, come quella sprigionata dallo sguardo sempre incredibilmente espressivo del grande Totò.

Cristina Casero, Legnano, Giugno 1998

 


"The Stranger wore a gun"
1998
Plotter ink jet su tela rembrandt plastificata UV, cm 126 x 100 cad.