2000
Bergamo
Galleria Fiamma Vigo
Douce France
Que reste - T'il de
nos Amours
“Que reste -t’il de
nos amours, que reste -t’il de ma jeunesse...”, canta Charles Trenet,
il cantautore francese che, per sessant’anni, ha dato voce ai sentimenti
e ai sogni, alle parole tenere e ai desideri ardenti di una Francia
provinciale. “Cosa resta dei nostri amori, cosa resta della mia gioventù,
cosa dei messaggi d’amo-re...”.
Giannetto Bravi, il “ladro d’immagini”, si è appropriato di quel
passato, di quegli amori, di quei biglietti. In una delle sue sortite tra
la polvere delle bancarelle, Bravi si è imbattuto in una serie di
immagini di uso strettamente privato, e se n’è appropriato.
Sono cartoline corredate di frasi stampate o di messaggi aggiunti a mano
che gli innamorati usavano scambiarsi, all’inizio del secolo che è
appena passato. Giovani uomini in giacchetta e scarpe di vernice si
dichiarano con sguardo languido, giovani donne pazze per il cinema e
cresciute nella convinzione di dover sposare un principe azzurro si
atteggiano a “Star” adottando a modelli le attrici preferite e si
sentono irresistibilmente chic mentre sono terribilmente kitsch. Gli
sguardi abbassati o rivolti verso un punto lontano, appoggiate ad un
muretto di campagna artificiosamente in posa come se fossero sullo scalone
di un castello, stringono fiduciose l’immancabile mazzolino
di fiori, che pare sempre appena colto. Lo sfondo è costituito da un
paesaggio sempreverde, gli uccellini non possono che cantare, la vita
sembra tanto gentile. Il tempo non conta.
Gli innamorati si scambiano frasi di un’immediatezza quasi inverosimile,
frasi che vorrebbero essere appassionate, mentre suonano trite o banali:
tutti i “ti amo” privi di mistero, i “ci baceremo mai?”, i “pour
toujours”, i “mon bonheur” che forse avrebbero voluto dirsi, ma che
risultava più facile esprimere per iscritto. Se passione c’è stata in
quelle righe, il tempo sembra averla diluita. Le parole non vibrano più.
Perse ormai la spontaneità e la malizia, restano frasi melense, eleganza
d’occasione, sguardi leziosi.
Viene da chiedersi se sia possibile che si tratti di una così totale,
privilegiata mancanza di consapevolezza, o è semplicemente lo svolgersi
lineare ed apparentemente limpido di riti sociali collaudati?
Il fatto è che nell’educazione sentimentale di allora non la libertà,
ma un legame d’amore era la meta ambita. E come nelle favole, che
finiscono sempre con “... e vissero felici e contenti”, non si diceva
mai cosa succede davvero, dopo.
A chi sa che la formula per fermare il tempo non è ancora stata scoperta,
che il sogno non ha la forza di modificare la realtà, che la gioia è
passeggera, che la vita scorre mentre noi ci dedichiamo ad altro, sembra
impossibile provare nostalgia per queste immagini, così banali nella loro
sdolcinatezza, così pretenziose ora, nelle innaturali dimensioni che la
manipolazione di Bravi ha conferito loro, privandole di ogni inti-mità.
Abituati come siamo alla velocità che rende impossibile qualsiasi pausa,
alla tirannica urgenza di novità che favorisce l’amnesia permanente, e
alla raffinatezza, al glamour, all’aggressività delle immagini da carta
patinata o da televisione, ci diventa difficile anche solo soffermarci ad
osservarle.
Ma Bravi sa quanto sia comune il dare valore a ciò che si possedeva solo
quando non lo si ha più.
Per questo è sempre stato attirato dalle immagini ordinarie, comuni, da
quelle immagini dal retrogusto casereccio, dalle “piccole cose di
cattivo gusto”, kitsch e popolari, di ieri e di oggi che sono le più
diffuse ma sembrano non meritare troppa attenzione, e per questo sono le
prime a perdersi.
Non per nostalgia, né per folklore, ma per una sorta di scrupolo
archivistico Bravi ha intrapreso il suo percorso alla scoperta del
patrimonio d’iconografie condivise che ognuno di noi si porta inscritto
nel bagaglio della memoria senza quasi rendersene conto. Un inventario del
passato prossimo, un’opera sistematica di ricognizione e campionatura,
di classificazione di luoghi e di sentimenti, che riguarda un passato che
non è necessariamente il nostro.
Meticoloso e attento, quando trova immagini che fanno al caso suo Bravi le
recupera: le fotografa, le ingigantisce e riporta su tela, a volte
ripetute a formare una serie o una sequenza, con un processo di
realizzazione lungo ed elaborato da cui la manualità è bandita: quasi
desiderasse lasciar parlare le foto, e s’imponesse una sorta di
astensione, una voluta neutralità. Ma il numero stesso dei passaggi rende
sensibile l’effetto di distacco e di decantazione del significato.
C’è un aspetto sottilmente impietoso in questa operazione. Come quando,
in occasione di un trasloco, è necessario vuotare i cassetti in fondo ai
quali sono sedimentate vecchie carte, vecchie cose private di ogni
funzione, dimenticate e inutili, imbarazzanti, tenere, ormai sepolte sotto
mucchi di altri oggetti come lo sono, nella nostra mente, sotto le
esperienze successive, sotto mille pensieri. Cose che rappresentano il
passato, che fanno parte di noi senza che ce ne rendiamo conto. Non
possono essere gettate, ma non possono trovare un nuovo posto. Il loro
senso sta nella stratificazione.
Sottratte ad essa si rivelano inconsistenti. Più forte che mai, in queste
immagini, si avverte il senso che sottende il lavoro: quello
di una perdita inesorabile, definitiva. Ciò che è perso non è più
sostituibile. Quel mondo è cristallizzato, quel tempo bloccato. È un
mondo, già scomparso, di immagini démodés.
Bravi fa leva su un sentimento generico di nostalgia soltanto per poi
introdurre, in modo surrettizio, una sensazione di estraneità: non siamo
mai stati così, noi.
Queste immagini, tracce di sogni lontani che sembrano potersi dissolvere
al solo guardarle, rappresentano la memoria di desideri che forse non si
sono mai realizzati, sono espressione di momenti di armonia che
probabilmente non solo noi, ma nessuno ha mai vissuto, che non hanno avuto
realtà propria. Non è legittimo provare rimpianto per un passato che non
è il nostro. Ciononostante si fa strada una strana, contraddittoria
sensazione di tenerezza per queste immagini in affanno, che vorrebbero
essere riconsegnate ai loro cassetti, alle vecchie scatole, alle pagine
del libro dal quale sono scivolate.
Gabi Scardi, Milano,
Marzo 2000 |